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UN' OASI NEL DESERTO! L'investimento etico e il consumo critico.
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La finanza e l’investimento sono sempre stati visti con i parametri del rendimento, del capitale, dell’interesse.
Sempre di più si sta diffondendo una nuova cultura che mira all’investimento con caratteristiche etiche, dove l’investitore mira non solo alla speculazione ma punta su attività che rispondano a certi requisiti di responsabilità sociale ed ambientale.
La borsa viene vista come un prezioso servizio all’economia di mercato quando gli investimenti non sono semplici speculazioni e manipolazioni individuali.
Da pochissimo viene teorizzata la sinergia tra economia ed etica. Ciò si deve all’economista, premio Nobel, Amartya Sen, che sostiene che al valore della ricchezza, la quale rimane sempre un elemento base del mercato, debba essere aggiunta anche la felicità, che è un concetto diverso dal benessere. Una persona è più ricca di un’altra quando è più felice ed ha ottenuto una migliore qualità della vita. La qualità della vita diviene quindi una variabile algebrica nei calcoli economici. Il mercato è vero mercato quando non produce solo ricchezza ma soddisfa anche attese e valori etici.
Il risparmiatore diviene così controllore delle conseguenze non economiche degli atti e delle azioni economiche.
In Italia il dibattito circa la dimensione etica della finanza sta muovendo i primi passi, anche grazie alle novità normative introdotte con la legislazione sulle Fondazioni bancarie.
L’investimento etico consiste nella selezione e nella gestione degli investimenti (azioni, obbligazioni, prestiti) condizionata da criteri etici e di natura sociale, concetto racchiuso nell’espressione socially responsabile investment usata negli Stati Uniti, o ethical investment, espressione usata in Gran Bretagna.
L’investitore etico è invece colui che non è unicamente interessato al rendimento delle proprie azioni, ma vuole conoscere le ragioni di fondo che realizzano questa redditività, le caratteristiche dei beni prodotti, la localizzazione dell’azienda e verificare come vengano condotti gli affari. ( dal sito http://www.finanza-etica.it/ )
Come scritto in un precedente post, il concetto edonistico di massimizzazione a breve termine di ogni progetto, di ogni piano strategico porta inevitabilmente a considerare solo gli aspetti finanziari di un’azione personale o societaria, dimenticando ogni inevitabile ripercussione sulle generazioni future.
Talvolta ci si chiede come l’essenza del capitalismo sia determinata dal quel senso di onnipotenza che pervade coloro che partecipano alla grande arena del capitale, dove talvolta basta essere presenti senza neanche disporre del capitale. L’essenza di questo sistema che non ammette repliche,non contempla alternative porta alla creazione di innumerevoli eccessi e bolle finanziarie: il libero mercato è un campo di battaglia dove sopravvivono coloro che magari portatori di un’idea innovativa, di un valido progetto devono adattarsi ad un ambiente dove esistono si, delle regole ben precise, ma dove quotidianamente per raggiungere il proprio obiettivo, vengono regolarmente calpestate.
Questo dipinto di tonalità grigie relativo al libero mercato, alla competizione selvaggia, per fortuna in questi ultimi anni sta piano,piano ritrovando il colore della responsabilità sociale e ambientale.
Il premio Nobel Milton Friedman amava ricordare che la responsabilità sociale delle imprese sul piano economico ed etico consiste nel dovere di ogni manager di perseguire l’interesse esclusivo degli azionisti o soci utilizzando le risorse finanziarie esclusivamente per questo scopo senza “ perdere tempo e energie” a cercare inutili benefici sociali o ambientali.
Ora non è difficile sostenere che il mondo degli affari talvolta è esclusivamente basato sulla vanità, l’egoismo e l’interesse personale ma la sua insostenibilità sociale, ambientale, la sua frenesia e follia organizzativa richiede un minimo di responsabilità verso quella società in cui opera.
Innumerevoli sono ormai i casi di questa frenesia, su questa follia organizzativa che fà dell’Umanità stessa a volte la cavia principale delle proprie sperimentazioni.
«Quando il tempo è denaro, sembra morale risparmiare tempo, specialmente il proprio.»
Theodor W. Adorno
Se le motivazioni fossero solo queste, le preoccupazioni potrebbero essere ancora contenute. Ma c’è dell’altro. In questo settore vale più che mai il motto secondo cui il tempo è denaro. In un recente articolo sul New England Journal of Medicine si riferisce che, secondo stime della stessa industria, ogni giorno di ritardo prima dell’entrata in commercio di un nuovo medicinale costa in media al produttore 1,3 milioni di dollari in mancate vendite.
«Quando il tempo è denaro, sembra morale risparmiare tempo, specialmente il proprio, …….quindi perchè risparmiare il tempo degli altri, la Vita degli altri!???
Un’altra domanda potrebbe essere questa: le aziende farmaceutiche che finanziando la ricerca contribuiscono a trovare soluzioni a malattie mortali, sono socialmente responsabili quando negano l’accesso a medicinali brevettati a paesi del terzo mondo? E’ chiaro allora che quando scegliamo di investire, la trasparenza è indispensabile per aiutarci a capire come scegliere consapevolmente.
Sempre più spesso le case farmaceutiche avviano le sperimentazioni sui nuovi farmaci nei paesi poveri.Cavie umane a bassissimo costo, poche regole , tempi brevissimi.Per la popolazione locale nessun vantaggio e moltissimi rischi.Questo articolo tratto da www.zadig.it svela i meccanismi crudeli e i disatrosi effetti.
Malati poveri e docili cercansi
Siamo nel 1996 e gli analisti di Wall Street valutano il nuovo antibiotico della Pfizer, il Trovan, un miliardo di dollari l’anno. Lo si vuole sperimentare anche contro la meningite. Il caso vuole che, non trovando abbastanza candidati negli Stati Uniti, in Nigeria sia in corso un’epidemia che falcerà 15.800 vite. Con un controllo pressoché nullo da parte della Food and Drug Administration, l’ente che dà il via libera ai farmaci ma che ha poca voce in capitolo sugli esperimenti fuori confine, i ricercatori della Pfizer allestiscono l’esperimento nella città di Kano.
Così mentre nella corsia a fianco i medici di Medecins sans frontières curano i disperati con un antibiotico il cloramfenicolo, i ricercatori della multinazionale americana assoldano 200 bambini per provare il nuovo prodotto. I sospetti nascono subito a causa della rapidità del test, che viene messo a punto in appena sei settimane, contro l’anno circa richiesto dalle autorità statunitensi. A dire il vero la Pfizer dichiara di aver ottenuto un parere favorevole al disegno della sperimentazione dal comitato etico dell’ospedale di Kano. Esce però in questi giorni (17 gennaio) la notizia secondo la quale l’azienda farmaceutica si sarebbe fatta rilasciare dai medici locali una lettera predatata di formale accettazione di un esperimento in realtà già iniziato e che procedeva a tempo di record. Desta interrogativi anche il fatto che non venga richiesto un consenso scritto, ma solo verbale, adducendo i costumi del luogo. Ma soprattutto sconcerta che la terapia a base di questo antibiotico venga mantenuta anche molti giorni dopo che i piccoli pazienti non rispondono. Undici bambini muoiono. Difficile dire quanti per la malattia e quanti per il mancato intervento. Sta di fatto che anche a causa a questo trial le autorità statunitensi permetteranno l’uso del farmaco solo agli adulti a causa dei frequenti danni al fegato e alle morti osservate anche in Occidente. In Europa la medicina verrà ben presto tolta dal commercio.
Che cosa insegna il caso Trovan, magistralmente raccontato nella prima di una serie di reportage sulle sperimentazioni farmaceutiche nei paesi in via di sviluppo dal Washingon Post
BODY.HUNTERS…..CACCIATORI.DI.CORPI
Le conclusioni sono riassumibili in due semplici punti: le case produttrici cercano sempre più spesso di sperimentare i nuovi farmaci nei paesi dell’Africa, dell’America latina, dell’Est europeo e dell’oriente meno sviluppato; lo spostamento nel campo d’azione della ricerca comporta un alto rischio (o la certezza?) di violazione dei diritti elementari delle persone e di cattiva qualità dei risultati.
MATERIA PRIMA PREZIOSA A BASSO COSTO
La tendenza va inquadrata nell’evoluzione recente dell’industria farmaceutica, un settore in rapida crescita e concentrazione (negli ultimi anni fusioni a ripetizione hanno prodotto giganti di dimensioni impressionanti) che deve rispondere con profitti adeguati agli investimenti sempre maggiori che richiede. Per reggere la concorrenza, nuovi farmaci a ripetizione devono essere messi sul mercato, per ciascuno dei quali è necessario un lungo, complesso e costoso percorso, dalla ricerca di base sino alla sperimentazione nell’uomo, prima su volontari sani e poi su malati. In un giorno qualsiasi, ormai, sono in corso nel mondo centinaia di prove cliniche diverse, per ciascuna delle quali sono necessari centinaia, se non migliaia (talvolta anche decine di migliaia) di soggetti da esperimento. La mancanza di materia prima umana è dunque la prima molla che spinge ad allargare il reclutamento fuori dalle sedi tradizionali, che sino a pochi anni fa erano esclusivamente le corsie delle Università e degli ospedali nei paesi ricchi. La ricerca si è spostata prima negli ambulatori dei singoli medici degli stessi paesi e ora, in cerca di territori sempre più vergini, verso le grandi masse di popolazione delle aree geografiche in via di sviluppo. Dove, oltre tutto, essendo assai peggiori le condizioni di salute, è più facile trovare in gran numero sofferenti di ogni singola malattia. E medici disposti ad arruolarli dietro compensi che superano di gran lunga le normali paghe mensili locali.
REGOLE PIU’ LASSE E COMPRENSIVE
Se le motivazioni fossero solo queste, le preoccupazioni potrebbero essere ancora contenute. Ma c’è dell’altro. In questo settore vale più che mai il motto secondo cui il tempo è denaro. In un recente articolo sul New England Journal of Medicine si riferisce che, secondo stime della stessa industria, ogni giorno di ritardo prima dell’entrata in commercio di un nuovo medicinale costa in media al produttore 1,3 milioni di dollari in mancate vendite. Il che significa che sono enormi le risorse che possono essere investite con la speranza di affrettare i risultati. Così come sono infinite le possibilità di tagliare tempi e costi spostando la ricerca dove gli standard etici e normativi sono assai meno vincolanti di quelli in vigore negli Stati Uniti o nella Comunità europea. Sono i prodigi della globalizzazione. Per di più, l’estrema frammentazione delle competenze nell’organizzazione delle grandi sperimentazioni cliniche consente ai grandi gruppi di scaricare la responsabilità di tutti i comportamenti disinvolti su piccole società che si incaricano di svolgere il lavoro sporco. In Svizzera è in corso un’inchiesta giudiziaria su una di tali organizzazioni, che, alla disperata ricerca di malati (aveva decine di contratti firmati con grandi case produttrici), era arrivata a utilizzare tossicodipendenti, rifugiati e persino a importare charter di pazienti dall’Estonia.
CHI SI FA PENA DEL CONSENSO INFORMATO?
Con tutto ciò, i giornalisti del Washington Post sembrano scandalizzati soprattutto dal fatto che nella maggior parte dei casi il "consenso informato” di chi si presta alla sperimentazione è inesistente o fittizio. E’ un approccio molto anglosassone, che risulta di fatto inapplicabile, se non addirittura incomprensibile, in buona parte dei paesi poveri. Leggendo per esempio le condizioni in cui i bambini nigeriani decimati da un’epidemia di meningite si affollavano nelle corsie disperate di un ospedale con i muri "imbrattati di escrementi e di sangue”, e dove medici statunitensi si erano catapultati a sperimentare un nuovo antibiotico, ci si domanda se la preoccupazione formale per il consenso informato non sia un alibi morale per eludere questioni più sostanziali, a cominciare dalla povertà e dalla fame. Oppure, se proprio si vuole restare nell’ambito della ricerca medica, ci si potrebbe chiedere almeno come si possa fare in modo che le nuove scoperte arrivino a beneficiare anche coloro che si sono prestati, più o meno consapevolmente, a fare da cavie.
Ma la regola è un’altra: dopo poche settimane i medici stranieri scompaiono, all’improvviso come erano arrivati. Di loro e dei loro farmaci, in Nigeria come in altri cento paesi, nessuno sa più nulla.
Roberto Satolli, Luca Carra
Le immagini presenti in questo articolo sono tratte dal sito di Medecins Sans Frontieres
PER ONOR DI CRONACA QUESTA E’ LA DIFESA DELLA PFIZER IN MERITO ALL’ACCUSA SOLLEVATA!
LA RISPOSTA DELLA PFIZER SUI BAMBINI CAVIA
Nigeria.22/05/2007.”Pfizer non ha mai ricevuto copia dell’azione legale del Governo Nigeriano. In ogni modo, come è stato più volte ripetuto negli anni scorsi, il governo nigeriano era ampiamente informato dello studio che Pfizer ha condotto in maniera responsabile, coerentemente con la legge nigeriana e con il consueto impegno per la sicurezza dei pazienti”: lo sostiene in una nota inviata nel pomeriggio l’ufficio stampa della Pfizer, la multinazionale farmaceutica accusata dallo Stato di Kano (nel nord della Nigeria) di aver utilizzato, nell’aprile del 1996, 200 bambini come cavie di un nuovo medicinale (il Trovan). Sperimentazioni che, secondo il ricorso depositato dal procuratore generale dello Stato di Kano, Barrister Aliyu Umar, avrebbero causato la morte di 18 dei 200 bambini utilizzati e causato danni irreversibili – malformazioni, cecità, danni cerebrali, paralisi – agli altri 182. |
A questo indirizzo invece troverete alcune sperimentazioni ancora sotto osservazione di altre case farmaceutiche che hanno effettuato sperimentazioni in Paesi in via di sviluppo, violando apertamente alcuni articoli della "DICHIARAZIONE DI HELSINKI" della WMA ovvero World Medical Association, codice etico che formula i principi con cui vanno effettuate tutte le sperimentazioni farmaceutiche.
http://www.somo.nl/html/paginas/pdf/Examples_of_unethical_trials_dec_2006_NL.pdf
http://www.wemos.nl/en-GB/Content.aspx?type=news&id=2783
Si potrebbe parlare per giorni, mesi, anni della responsabilità sociale d’impresa, del senso di un investimento, della consapevolezza che ognuno di noi dovrebbe avere quando investe il proprio denaro, dell’immenso potere che abbiamo quando facciamo un acquisto, singolarmente forse insignificante, ma unito a milioni di persone ha un effetto devastante, per far si che la "sequenza tradizionale" di cui parlava Adam Smith la cosidetta "sovranità del consumatore" ciò che teorizzava ovvero la produzione in ubbidienza alle richieste di mercato prevalga sulla teoria contraria ipotizzata da J.K.Galbraith nel suo " Il nuovo stato industriale" secondo il quale ormai l’imposizione andrebbe prevalentemente dal produttore al consumatore.
Sulla spinta del consumo critico, varie imprese hanno imboccato la strada della responsabilità sociale e ambientale. Ma ancora troppe continuano a violare i diritti umani, sfruttano i piccoli produttori del Sud del mondo, vogliono imporci gli organismi geneticamente modificati, sostengono regimi oppressivi, finanziano scelte di guerra, riforniscono gli eserciti.
Ecco la necessità di informarci per fare sentire alle imprese tutto il nostro peso di consumatori che dicono no a comportamenti irresponsabili.
AMARTYA SEN " ETICA ED ECONOMIA"
Amartya Sen :«La moderna economia del benessere è del tutto precaria. Così come precario è quel criterio di interesse personale in base al quale se un cambiamento è vantaggioso per ciascuno deve essere un buon cambiamento per la società nel suo complesso».
di ARMANDO MASSARENTI
Questo primo numero di "Etica ed economia" esce nel momento in cui il mondo intero si compiace della recente assegnazione del Premio Nobel ad Amartya Sen, l’economista che più di ogni altro si è impegnato nella ridefinizione del binomio cui è intitolata questa rivista Da più di dieci anni egli copre a Harvard la prima cattedra congiunta di filosofia morale ed economia (On Ethics and Economics è anche il titolo di un suo libro, tradotto in italiano in Etica ed economia, Laterza) e non l’ha abbandonata quando, circa un anno fa, ha assunto il ruolo di Master al Trinity College di Cambridge. Questi due mondi, tra i quali abitualmente si muove – l’Europa e l’America – certo possono essere fieri di questo Nobel. Ma ancora di più lo sono forse i Paesi nei quali Sen ha deciso di recarsi, permanendovi a lungo, nei mesi immediatamente successivi alla cerimonia di Stoccolma: l’India, il Paese di origine del quale ha orgogliosamente mantenuto la cittadinanza, il Bangladesh, la Corea, con puntate qua e là a Londra, a Cambridge, e anche in Italia.
Oggi si parla tanto di globalizzazione dei mercati, ma Sen, nel suo girovagare cosmopolita, insiste anche su un altro tipo di globalizzazione: quella del valori. Anzi, ad essere più esatti: sul contributo che valori appartenenti a diverse culture possono dare all’umanità in generale, ai "valori universali" di cui, in maniera complessa e per niente univoca – democrazie e mercati, soprattutto quando riescono ad andare di pari passo, sì fanno portatori nel mondo. A spiegare il successo di molte economie, secondo Sen, sono proprio gli assetti morali e politici che informano le istituzioni di un certo Paese o gruppo di Paesi, il loro grado di democrazia, il rispetto dei diritti umani, il livello di acculturazione della popolazione, lo sviluppo dei sistemi sanitari, ecc. La grande crescita delle economie del Sud-Est asiatico, e oggi il loro grado di resistenza alla crisi finanziaria che le investe, ad esempio, possono essere spiegate puntando l’attenzione all’impulso che quei Paesi diedero ai sistemi educativi negli anni 60, e non a una presunta predisposizione al dispotismo; e le difficoltà di crescita dell’India, analogamente, sono strettamente legate al persistere di tassi altissimi di analfabetismo. Sen però rifiuta l’etichetta di economista del Terzo Mondo, anche se egli è noto per i suoi studi di economia dello sviluppo e, per le sue analisi delle carestie, su cui pure si sofferma nel saggio che pubblichiamo in questo primo numero della rivista. Lo abbiamo scelto proprio per la varietà dei suoi argomenti. Senza indulgere in tecnicismi, egli passa da una situazione a un’altra, cogliendo pregi e difetti dei diversi sistemi e Paesi.
Gli Stati Uniti, per fare solo un esempio, hanno un sistema sanitario insoddisfacente e avrebbero molto da imparare da quello inglese; ma al tempo stesso giudicherebbero intollerabili, e decisamente immorali, i tassi di disoccupazione europei: senza dogmatismi e senza partiti presi, Sen ci dice dunque che su questo punto è l’Europa a dover imparare dall’America Questo antidogmatismo e questa apertura mentale, caratteristici dei migliori economisti e filosofi del nostro tempo, vorremmo fossero la caratteristica costante di questa nuova rivista. Sia per quel che concerne gli aspetti pratici sia per quelli teorici, nel duplice senso del termine ‘economia’: l’economia concreta per esempio di un Paese (l’economia italiana, europea, statunitense) o di un settore particolare (l’economia sanitaria, scolastica, ecc.) da un lato, e l’economia intesa, appunto come "teoria" o "scienza" economica Anche in questo, Sen ci è utile per spiegare le nostre intenzioni. Egli è stato tra l’altro uno dei principali critici, e insieme innovatori, della cosiddetta Welfare Economics. Questo imponente edificio teorico poggia – secondo Sen – su una base morale e motivazionale fragile e inadeguata, tipica dell’"homo oeconomicus", basata interamente sull’idea della massimizzazione dell’interesse individuale. Senza rinunciare alla centralità dell’individuo (né alla componente autointeressata del comportamento umano), Sen ritiene che questa visione non sia sufficiente: essa trascura elementi importantissimi nella definizione di valori, scopi e desideri, come i diritti sociali e civili, la partecipazione alla vita pubblica, ma anche il perseguimento della conoscenza o il godimento delle arti. Tutte cose che, oltre a essere importanti in sé, disegnano un universo di valori, finali e strumentali, che Sen considera tutt’altro che irrilevanti per l’economista e per la definizione delle politiche pubbliche. Di qui le sue critiche all’idea di benessere definito in termini utilitaristici (anche se egli è, da buon economista, un conseguenzialista), e la definizione – attraverso la sua teoria delle capacità e dei funzionamenti – di un’idea di benessere e di felicità vicina all’"eudernonia" aristotelica, in cui la fioritura delle capacità umane assume un carattere fortemente pluralistico.
Se seguiamo il concetto della felicita’ dubito che vivere negli Stati Uniti renda maggiormente felici di chi vive in Europa. Purtroppo e’ vero ho visto piu’ persone felici sulle spiagge di mezo mondo che nel golden mile della City.
provare il contrario.
Saluti
Massimo