FISCAL COMPACT: DEFAULT COMPATTO!

Scritto il alle 10:04 da icebergfinanza

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Mentre in Italia un simpatico ragazzo con il gelato va in giro a dire che la Germania non è nostra nemica (…ci mancherebbe) e che il modello tedesco sul lavoro e quello sulle unioni gay sono modelli vincenti da importare (sic!), sulla via di Damasco un giorno si e uno no, assistiamo ad improvvise conversioni…

” Un emendamento al ddl sulle riforme per togliere dall’articolo 81 della Costituzione l’obbligo del pareggio di bilancio, introdotto con il Fiscal Compact. Lo presenteranno alla Camera alcuni deputati della minoranza del Pd, tra cui Stefano Fassina, Giuseppe Lauricella e Alfredo D’Attorre.”  La minoranza Pd: “Via il pareggio di bilancio dalla costituzione

Ora Voi sapete che sono molto amico di Machiavelli e nessuno meglio di lui ci ha insegnato come funziona la politica, ma un limite alla decenza deve esserci.

Per carità uno può ben sottoscrivere ad occhi chiusi tutto, votare a favore del Fiscal Compact, pareggio di bilancio in Costituzione e MES, sotto le bombe per paura di essere colpito dalle scheggie, ma non mi puoi assolutamente fare un’intervista al Financial Times nella quale …

 due

 

 Ve la riporto con la traduzione via Google perchè l’articolo sul Financial Times è accessibile solo a pagamento…

Ma certo tu entri nel governo Monti e dichiari sotto i riflettori della carta straccia inglese che se agiamo unilateralmente danneggiamo il progetto europeo e che non rinegoziamo nulla accettiamo tutto e non veniamo meno ai nostri impegni per rilanciare la domanda interna.

Su questo non c’è alcun dubbio ci ha pensato lui, la domanda interna l’ha distrutta…

 

 

 

 

 

 

 

 

ZAKARIA: You need somebody to buy your products. Are you saying you want Germany to buy things from you?

MONTI: Well, we are gaining a better position in terms of competitiveness because of the  structural reforms. We’re actually destroying domestic demand through fiscal consolidation. 

We’re actually destroying domestic demand through fiscal consolidation.We’re actually destroying domestic demand through fiscal consolidation.We’re actually destroying domestic demand through fiscal consolidation.

“Stiamo effettivamente distruggendo la domanda interna attraverso il consolidamento fiscale”.

You avere capito?

Bene quindi si tratta di un innocente errore di valutazione suppongo, il consolidamento fiscale, lo hanno fatto anche altri illustri signori …MERKEL CHIAMA DRAGHI: UNA SOLA PAROLA …AUSTERITA’! come abbiamo visto lunedi ed è sempre finita male, sempre!

Bene visto che gli astri nascenti del giornalismo italiano per mesi e mesi hanno fatto i galli con tanto di ironia sulle nostre previsioni di insostenibilità del fiscal compact  Fiscal compact: la paura (infondata) dei 50 miliardi – Il Fatto Quotidiano un’altra bella addormentata si sveglia nella terra della perfida Albione, in un’intervista dopo spara a zero sugli errori di Draghi e Merkel di cui vi riporto solo il pezzo finale…

Draghi – diceva – non è l’unico ad aver commesso errori. Quali sono quelli della Merkel?
“Il più grave è culturale. Da cinquant’anni gli economisti tedeschi, strettamente aderenti alla scuola neoclassica, si preoccupano solo dell’offerta: fanno sì che in casa loro, dai conti pubblici all’organizzazione del lavoro, tutto sia in ordine, e poi il mercato farà il resto. Non si sono accorti che la crisi attuale è di domanda, e che ormai fanno parte di una comunità di 18 Paesi le cui peculiarità vanno considerate. Di qui l’ostinazione// per l’austerity, e anche quel vero e proprio ricatto da cui è nato il Fiscal Compact, concepito in cambio degli aiuti alla “periferia”. Mi chiedo come un economista del calibro di Mario Monti abbia potuto firmare un trattato che, se applicato alla lettera, porterà l’Italia al fallimento: ridurre al 60% il debito in vent’anni significa andare incontro a una recessione che sottrarrebbe il 30-40% del Pil nello stesso periodo. Un disastro, e la fine dell’euro”.  Wolfgang Munchau: “Basta con gli errori di Merkel e Draghi – La Repubblica

Ti chiedi come un economista del calibro de che…?

Son sette anni che mi chiedo come sia possibile che un blogger qualunque come il sottoscritto solo studiando la storia e le dinamiche macroeconomiche sia riuscito a comprendere quasi tutto, usando il buo senso che se ne stava nascosto per paura del senso comune come direbbe un nostro celebre connazionale.

La verità è figlia del tempo, su questo non abbiamo alcun dubbio!

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19 commenti Commenta
christiancm
Scritto il 3 Settembre 2014 at 10:17

Ogni tanto mi sfugge la tua “comprensione” di quanto sta accadendo… perchè ogni tanto sembri essere contraddittorio negli scenari (rari) e nelle valutazioni relative fra realtà… ma dipenderà dal fatto che non mi sono ancora iscritto fra i tuoi sostenitori… ci sto pensando..

http://www.finanzacritica.it/2014/09/abe-come-icaro-doubts-about-abenomics/

mordor1979
Scritto il 3 Settembre 2014 at 10:54

Ecco la morale dell’articolo scritto dal Fatto, penna di Stefano Feltri, udite udite, in aprile 2014:

“Morale: incrociando le dita, se le previsioni di crescita vengono rispettate, se il debito non sale troppo e se non arriva la deflazione, la gabbia del rigore europeo ci costa circa 5 miliardi all’anno. Che non sono pochi, ma sempre meglio di 50.”

Crescita: -0.3 se va bene
Debito: +100MLD
Deflazione: arrivata

Ma io mi chiedo, ma prima di scrivere caro Stefano non potresti alzare il culo, aprire la finestra e guardarti un po in giro??

massimo84
Scritto il 3 Settembre 2014 at 11:26

io dico che saranno + di 50 mld a/a
poi c’è il debito privato….

era meglio non sperperare i soldi dagli anni ’70 in poi
….

stanziale
Scritto il 3 Settembre 2014 at 11:56

A me risulta che come economista monti non ha mai pubblicato niente , il programma (si e’ letto) sembra che glielo preparava Ichino (cosi’ si leggeva) e mi risulta che monti sia ampiamente poco considerato ancho alla Bocconi presso alcuni docenti…..il merito (si fa per dire)di questi personaggi rigorosamente in minuscolo come anche saccomanni, padoan ecc. (cfr wikipedia) e’ di aver fatto la trafila nelle varie istituzioni come fmi, bildelberg, trilateral, goldman sachs ecc. che altro non sono che palestre per aspiranti traditori del proprio paese (diamo pane al pane e vino al vino…). Mi sembra che anche fassina (ma potrei sbagliare…) abbia frequentato questi ambienti….sono i tempi….una volta andavano a scuola a Mosca, ora al fmi….ed ora, via…questi fenomeni che rispondono ad interessi altrui, ci praparano un altro giro di sanzioni con le quali formare altri disoccupati…e ridaje poi, autorazzisticamente, a ridare la colpa alla casta e alla spesa pubblica….

atomictonto
Scritto il 3 Settembre 2014 at 12:43

massimo84@finanzaonline,

Il debito privato Italiano è minuscolo.
Il saldo tra crediti e debiti privati, considerando immobilizzazioni, patrimonializzazioni e depositi, è in “attivo” di 6400 miliardi (fonte FMI).
Quelli disastrati sono gli Inglesi il debito composito (household, financial, corporate e public) supera il 600% del PIL dei sudditi (in mutande) della regina.
Siamo nel mirino della speculazione, che ti ricordo essere in buona parte di casa a Londra, proprio perchè l’unica speranza dei sudditi Britannici di dover fare i conti con la storia (se è vero che noi viviamo sopra le nostre possbilità da 30 anni loro lo fanno da 3 secoli!) ovvero di vedere prosperare l’euro ed essere quindi costretti o ad abbandonare la loro sterlina o ad adottare il dollaro diventando schiavi degli USA (la sterlina è una piccola moneta, se l’euro sopravvive è un vasetto di coccio in mezzo ai vasoni di ferro euro/dollaro).
Naturalmente un’Inghilterra senza più la propria moneta nazionale da stampare a capocchia per coprire le mostruose falle del proprio sistema finanziario e creditizio finirebbe a pane&acqua per generazioni.
Questo almeno è il mio parere. 🙂

atomictonto
Scritto il 3 Settembre 2014 at 12:49

stanziale@finanza,

Ti risulta MOLTO male.
Di seguito le pubblicazioni di Mario Monti:

– Problemi di economia monetaria, a cura di, Milano, Etas Kompass, 1969.
– Gli obiettivi delle banche, i tassi di interesse e la politica monetaria, Milano, Tamburini, 1970.
– Analisi degli effetti monetari e finanziari delle politiche di bilancio regionale e locali. Un rapporto metodologico, Milano, Tamburini, 1974.
– Per un’analisi mensile della politica monetaria e finanziaria italiana, Milano, O. Capriolo, 1974.
– Ricerca sul sistema creditizio, I, Quadro generale, con Tommaso Padoa-Schioppa, Roma, Ente per gli studi monetari, bancari e finanziari Luigi Einaudi, 1976.
– Che cosa si produce come e per chi. Manuale italiano di microeconomia, con Onorato Castellino, Mario Deaglio, Elsa Fornero, Sergio Ricossa, Giorgio Rota, Torino, Giappichelli, 1978.
– Il sistema creditizio e finanziario italiano. Relazione della Commissione di studio istituita dal Ministro del tesoro, Roma, Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato, 1982.
– L’Italia e la Repubblica federale di Germania in cammino verso l’unione economica e monetaria europea, con Franco Bruni, Milano, Centro di economia monetaria e finanziaria, Università commerciale Luigi Bocconi, 1989.
– Autonomia della Banca centrale, inflazione e disavanzo pubblico: osservazioni sulla teoria e sul caso italiano, con Franco Bruni, in Mario Arcelli (a cura di), Il ruolo della banca centrale nella politica economica, Bologna, Il Mulino, 1992. ISBN 88-15-03754-3.
– Il governo dell’economia e della moneta. Contributi per un’Italia europea, 1970-1992, Milano, Longanesi, 1992. ISBN 88-304-1099-3.
– Il mercato unico e l’Europa di domani. Rapporto della Commissione europea, presentato da, Milano, Il Sole-24 Ore libri, 1997. ISBN 88-7187-815-9.
– Intervista sull’Italia in Europa, Roma-Bari, Laterza, 1998. ISBN 88-420-5090-3.
– La Democrazia in Europa: guardare lontano, con Sylvie Goulard, Rizzoli, novembre 2012. ISBN 978-88-17-06427-9.

Ti risparmio la lista delle prefazioni e ti ricordo che, tantoper dire, uno dei risultati più importanti della sua attività di ricerca in campo economico è il modello di Klein-Monti che descrive il comportamento di una banca in regime di monopolio, risultato degli studi paralleli di Monti e del premio Nobel Lawrence Klein….

massimo84
Scritto il 3 Settembre 2014 at 13:08

atomictonto@finanza,

il debito aggregato ITA è >300% del PIL = 5k mld circa
quello UK è maggiore? amen!
come deve rientrare il debito pubblico
deve rientrare anche quello privato
e più rallenta l’economia, maggiore è il peso relativo del debito

la stima della ricchezza è fuffa
quando incominci a perdere lavoro e rimetterci cash per esistere…la casettina del nonno ipertassata non la vuole più nessuno

stanziale
Scritto il 3 Settembre 2014 at 13:08

atomictonto@finanza,

hai ragione, preciso meglio. Il per me modesto economista che il programma di governo glielo preparava Ichino (letto sul sussidiario) pubblicare ha pubblicato, roba pero’ di scarso valore o peso, grigia, mai citata se non una volta http://www.google.it/url?sa=t&rct=j&q=&esrc=s&source=web&cd=4&cad=rja&uact=8&ved=0CDMQFjAD&url=http%3A%2F%2Fwww.rischiocalcolato.it%2F2011%2F11%2Fprof-mario-monti-lunico-economista-con-una-sola-citazione-scientifica-in-tutta-sua-vita.html&ei=lfQGVK3GBeSk0QXKqoHwDw&usg=AFQjCNFZcubwqtNnPvcKLfq5tUxX6pK4uQ&sig2=a51YfWrMakamQm-8nW_2Dw

aorlansky60
Scritto il 3 Settembre 2014 at 13:55

Atomictonto scrive : “Il debito privato Italiano è minuscolo.
Il saldo tra crediti e debiti privati, considerando immobilizzazioni, patrimonializzazioni e depositi, è in “attivo” di 6400 miliardi (fonte FMI).”

Osservazione esatta;

non per niente, le statistiche ogni tanto ci ricordano che gli italiani sono, a livello europeo, il popolo con la maggiore proprietà privata immobiliare -l’80% della cittadinanza italiana è proprietaria della propria abitazione- e questo fermandoci ai dati ufficiali, perchè in un paese come l’italia in cui è emerso recentemente che più di 1.000.000 (un milione) di abitazioni risultano abusive e non dichiarate al catasto territoriale di competenza, il dato diventa ancora più vistoso.

E d’altra parte, questo spiega il perchè molti osservatori ed economisti internazionali non hanno mai dato eccessivo peso all’elevato livello di deb pubbl italiano concludendo che “quel debito è garantito soprattutto dall’alto livello di risparmio e di proprietà immobiliare dei 60 milioni di cittadini italiani…” da interpretare come “se la situazione precipita, sappiamo dove andare a prendere i soldi per tamponarla…”

Invece, in un altro paese dove i dati attuali sembrerebbero dar loro ragione – 6% di disoccupazione e crescita prevista al +3% quest’anno, confermati dal trend reale ai primi 6 mesi 2014 – le cose in realtà non sarebbero poi così rosee nella sostanza, infatti :

“Quelli disastrati sono gli Inglesi il debito composito (household, financial, corporate e public) supera il 600% del PIL dei sudditi (in mutande) della regina.”

Corretta osservazione. Nulla da eccepire.

giobbe8871
Scritto il 3 Settembre 2014 at 15:58

PER ME LA STORIA SI RIPETE.
AVIDITA’ – EGOISMO – CONCENTRAZIONE DELLA GRANDE PROPRIETA’ PRIVATA…ECC….

La crisi del 1929
(il crollo di Wall Street)
1. L’evoluzione del liberalismo economico
Il liberalismo economico o liberismo ritiene che la libera iniziativa economica dell’individuo, non condizionata dallo Stato, sia la condizione per il funzionamento del mercato. La libera concorrenza e il libero scambio determinano l’aumento della produzione a beneficio della maggioranza della popolazione. Il solo intervento dello Stato, riconosciuto come lecito, è quello di rimuovere gli ostacoli che impediscono il corretto funzionamento del mercato.
Nel dibattito economico del XVIII secolo la fisiocrazia ha esposto per prima questo concetto individuando nella “natura” la fonte di ogni ricchezza e condannando qualsiasi ingerenza da parte delle autorità, che ostacolasse o indirizzasse lo sviluppo economico del paese. Ai fisiocrati va riconosciuto il merito di aver superato l’idea mercantilistica che la ricchezza e il suo incremento siano dovuti allo scambio. In Inghilterra fu Adam Smith a sostenere nell’Indagine sulla natura e le cause della ricchezza delle nazioni la medesima teoria con la differenza che la ricchezza non è prodotta dal lavoro dei campi ma dall’attività industriale, che proprio in quel periodo conosceva il suo straordinario sviluppo.
La politica liberista ebbe il massimo sviluppo in Europa nel periodo 1850-1880, soprattutto ad opera dell’Inghilterra e continuò ad essere seguita fino alla prima guerra mondiale. In ambito dottrinale, dagli anni ’70 dell’Ottocento, si ebbe il superamento dell’impostazione tradizionale dell’economia con la scuola marginalista o neoclassica. Essa criticò la concezione ricardiana di valore/lavoro, condivisa da Marx, secondo la quale il valore della merce era stabilito dalla quantità di lavoro socialmente utile per produrla; riprese la teoria della “mano invisibile” di Smith e la teoria edonistica di Bentham, ma sviluppò in tutt’altro modo l’indagine economica.
L’analisi economica doveva partire non dall’offerta ma dalla domanda, dal bisogno del compratore che sa valutare quanto dei suoi risparmi o del suo reddito va speso per l’acquisto delle merci. Il valore di una merce quindi è indicato nella sua “utilità marginale”, cioè in relazione al suo grado o “margine” di utilità. In altri termini, il valore e l’utilità di una merce sono in relazione alle altre merci e ai bisogni degli uomini. Analogamente l’imprenditore è spinto a produrre una certa quantità di merce nella misura in cui consegue un “sufficiente margine” di guadagno. Questa analisi viene affrontata dai marginalisti in modo isolato e indipendente da considerazioni di altra natura, sia di ordine sociale, sia di ordine politico, come invece le precedenti teorie avevano sostenuto.
Tale sistema, ritenuto stabile e armonico, sarà oggetto di critica da parte di Keynes che propose descrizioni più ampie e dinamiche dei rapporti economici.
(Cfr. la mappa concettuale: Il liberalismo)
2. Introduzione alla crisi
Il crollo di Wall Street, il grande crollo, la crisi del 1929, sono tutte espressioni usate per indicare un periodo della storia economica del Novecento durante il quale si ridussero considerevolmente e su scala mondiale produzione, occupazione, redditi, salari, consumi, investimenti, risparmi, ovvero tutte le grandezze economiche il cui andamento caratterizza di norma lo stato di progresso o di regresso dell’economia di un paese. Ciò che rese unica questa crisi fu che la contrazione dell’attività economica fu in quegli anni così rapida e radicale come mai era accaduto. Quando la crisi esplose, nel 1929, la letteratura economica era assai ricca e si vantava di poter ricostruire le vicende delle varie crisi succedutesi nel tempo, nonché di poterne fornire spiegazioni logiche. Erano già state individuate e più o meno studiate le crisi del 1816, 1825, 1836-39, 1847, 1857, 1866, 1873, 1882-84, 1890-93, 1900-1903, 1907, 1911-13, 1920, 1924, 1926-1927. Si sapeva inoltre quali fattori del processo economico potevano essere ritenuti responsabili delle crisi: l’eccesso di risparmio (Malthus), l’insufficienza del consumo (Sismondi), il tasso d’interesse tenuto artificiosamente basso (Wicksell), e ancora: l’eccesso di impianti nelle industrie di beni strumentali rispetto a quelle di beni di consumo; l’eccesso di credito, etc. Si era consapevoli del peso dell’andamento dei raccolti, delle innovazioni tecnologiche e del credito il cui utilizzo era sempre in crescita (con l’esito di aumentare considerevolmente la violenza delle fluttuazioni). Infine l’aspetto monetario, le variazioni nel ritmo della produzione dell’oro… etc.
Pur nella natura variopinta delle crisi, vi era accordo sul fatto che queste, al di là della loro durata, risultavano sempre racchiuse tra un punto di svolta inferiore (o crisi) dopo il quale cominciava la contrazione dell’attività economica, e un punto di svolta superiore (o punto di ripresa).
Il ricco bagaglio letterario non aiutò i grandi economisti statunitensi (Irving Fischer, Charles E. Mitchell, Joseph S. Davis) a intuire negli indubbi segni di eccitazione che caratterizzarono l’economia americana del 1928-29 l’approssimarsi della grave crisi (non mancò però chi, come Roger Babson, annuncio un crollo catastrofico).
La crisi si manifestò in maniera improvvisa ma non inattesa. Ancora alla fine dell’estate del 1929 la borsa di New York, nella quale poi esplose, attraversava una fase di grande euforia e speculazione. Ma prima un periodo altalenante, poi giovedì 24 ottobre il primo giorno di panico (in cui 13 ML di azioni vennero vendute a prezzi nettamente inferiori a quelli di acquisto), e infine martedì 29 ottobre (più di 16 ML). Nonostante gli interventi, sia organizzati che spontanei, allestiti da gruppi bancari e finanziari per dare fiducia al mercato, il crollo delle azioni non incontrò argini.
3. Le cause storico-politiche della crisi
Il crollo della borsa, piuttosto che la causa della crisi, fu il segnale della depressione. La crisi esplosa sul finire dell’ottobre 1929 aveva origini lontane, vi aveva concorso seriamente lo sconvolgimento che nelle relazioni economiche, monetarie, e finanziarie internazionali aveva prodotto la prima guerra mondiale.
Alle gravi perdite di vite umane e di ricchezza provocate dalla guerra (circa 10 ML di morti cui vanno aggiunti 20 ML di morti per la spagnola, 20 ML di feriti, tra cui moltissimi invalidi e pertanto inidonei al lavoro e circa 400 miliardi di dollari) si erano aggiunti:
1) il collasso politico dell’Impero asburgico, con il sorgere dalle sue ceneri di numerosi altri stati (Jugoslavia, Cecoslovacchia, Ungheria, Polonia), che non avevano tardato a imboccare la strada di politiche protezionistiche, e quindi limitatrici degli scambi internazionali;
2) la rivoluzione russa (con la conseguente esclusione dell’economia sovietica dai liberi traffici mondiali, nonché la nascita di altri Stati, come la Finlandia e le Repubbliche baltiche di Estonia, Lituania e Lettonia);
3) il collasso economico della Germania, cui il trattato di Versailles aveva imposto il fardello del riconoscimento dei debiti di guerra e del pagamento delle riparazioni.
L’Inghilterra. Oltre a impoverire vaste regioni dell’Europa orientale e dell’Europa centrale e a provocare elementi di disgregazione negli equilibri economici e nei rapporti commerciali internazionali, la guerra aveva anche frantumato l’equilibrio monetario raggiunto negli anni che precedettero la prima guerra mondiale. Le monete della maggior parte degli Stati occidentali erano state assai vicine alla loro parità legale, e i valori interni delle singole monete erano stati solidamente legati all’oro (unità di misura internazionale). Durante la guerra gli Stati avevano ecceduto nelle emissioni di carta moneta ad eccezione degli Stati Uniti che riuscirono a mantenere inalterata la convertibilità in oro (Gold Standard) del dollaro. La misura del danno sofferto dalle altre monete emergeva dal loro cambio con il dollaro. Fino alla guerra la Gran Bretagna era stata il «banchiere del mondo» e la sua moneta – la sterlina – era stata il pilastro del sistema monetario internazionale (tutti i prodotti erano prezzati in sterline); era anche il principale centro assicurativo del mondo (i Lloyds di Londra); e, per l’imponente flotta mercantile di cui disponeva, era centro del mercato dei noli.
La Grande guerra non mutò d’un tratto questa situazione, ma le necessità della guerra avevano fatto trascurare l’aggiornamento tecnologico dell’apparato produttivo, privandolo di una parte della sua concorrenzialità. Al tempo stesso, impegnato com’era nella guerra, il Paese aveva anche trascurato parte dei mercati mondiali, lasciando maggiore spazio sia ad alcuni dei suoi Domini (India) sia a talune nazioni (Stati Uniti e il Giappone).
La fine della guerra trovò così l’Inghilterra indebolita sia sul piano produttivo che su quello finanziario e monetario; mentre gli Stati Uniti apparivano cresciuti economicamente e finanziariamente, e divenuti, da paese debitore, paese creditore dell’Europa. Si accendono cioè le luci sul mercato finanziario di New York. Il mercato di Londra, dal canto suo, andò lentamente perdendo forza, soprattutto nelle possibilità di credito, e finì addirittura per indebolire le sue riserve auree.
Già nel 1920 la sterlina era svalutata rispetto al dollaro del 22%. Ma allo scopo di non affievolire il prestigio della City l’Inghilterra, invece di riconoscere il mutato rapporto della sterlina col dollaro, e stabilizzare il valore della sterlina alla nuova parità determinatasi, adottò una politica deflazionistica che le permise di ripristinare nel 1925 il rapporto con il dollaro alla parità prebellica, segnando il ritorno alla convertibilità aurea, sia pure integrata dall’apporto di monete forti (Gold Exchange Standard). L’attuazione di questa politica deflazionistica, determinando una caduta dei prezzi interni e dei tassi di profitto e di interesse rispetto a quelli esteri, indebolì le esportazioni e favorì largamente le importazioni, contribuendo a precipitare l’economia britannica in una grave crisi, che non mancò di avere i suoi risvolti sociali, come attestano i gravi conflitti nel mondo del lavoro che culminarono nel lungo, estenuante sciopero dei minatori del 1926.
Stati Uniti. Del tutto diversa la condizione degli Stati Uniti. Con le sole eccezioni del 1924 e del 1927, gli USA registrarono un boom ininterrotto fino all’ottobre 1929. A stimolare l’economia americana furono molti fattori:
– l’espansione dell’industria edilizia e delle industrie da questa indotte;
– una serie di innovazioni, basate sullo sfruttamento di nuovi prodotti (l’automobile, grazie all’adozione di nuovi sistemi di produzione) e delle industrie collegate (petrolifere, della gomma, dell’acciaio, delle costruzioni stradali, dei trasporti stradali, ecc.);
– lo sviluppo dell’industria elettrica, la cui produzione raddoppiò tra il 1923 e il 1929;
– l’impulso notevole alla razionalizzazione dei processi produttivi, con l’adozione, nelle industrie dei prodotti di massa, di un’organizzazione scientifica del lavoro, o «taylorismo», mirante ad eliminare i tempi morti, e a ridurre al minimo i movimenti inutili (un esempio per tutti fu l’adozione della catena di montaggio da parte della Ford agli inizi del secolo).
Il reddito nazionale aumentò, fra il 1923 e il 1929, del 23% laddove la popolazione, in seguito alle leggi restrittive dell’immigrazione del 1921, aumentò solo del 9% e la forza di lavoro solo dell’11%. Questa maggiore disponibilità di capitali fece degli Stati Uniti il paese più prospero del mondo. E furono proprio queste abbondanti disponibilità che consentirono agli USA di concedere cospicui prestiti non solo all’Europa ma anche all’America latina, al Canada e ad alcuni paesi asiatici (si parla in tutto di quasi 30 miliardi di dollari). La maggior parte dei prestiti fu concessa ai paesi europei dopo che essi erano riusciti a domare l’inflazione che li avevano afflitti nel dopoguerra. Inflazione che era stata di tale ampiezza e gravità che si era dovuto provvedere a sostituire le monete esistenti, creandone delle altre, dopo aver assicurato loro congrue ed effettive garanzie (dalla corona allo scellino in Austria; dal marco al renten-mark in Germania; dal rublo al rublo-cervonetz in Russia).
Dato che il sistema monetario prebellico era ancorato all’oro si ritenne che bisognasse ritornare all’oro. E poiché era la moneta inglese il punto di riferimento delle altre monete europee, il fatto che essa puntasse a ripristinare il rapporto prebellico col dollaro non fu senza conseguenza per gli altri paesi occidentali. Anche se non si ebbe un vero e proprio ritorno al Gold Standard, ma si arrivò ad un Gold Exchange Standard, nel senso cioè che si equipararono all’oro le valute pregiate estere, il risultato non fu meno grave. Le riforme monetarie, mano mano che si succedevano creavano (o scoprivano) il vuoto nelle economie interessate. Così quando l’Inghilterra nel ’25 tornò alla parità entrò in crisi; allo stesso modo, quando nel ’27 la lira si allineò alla sterlina ebbe inizio la crisi anche in Italia (cfr. A. Musco). Eppure fu dopo questa generale sistemazione delle monete europee svoltasi tra il 1925 e il 1927 che gli Stati Uniti intensificarono i loro prestiti ai vari Paesi europei. Nei soli anni 1925-1929, gli Stati Uniti prestarono all’estero circa tre miliardi di dollari. E a poco a poco una gran parte dell’oro del mondo si andò a concentrare a Fort Knox (che nel 1929 ha già il 38% dell’oro del mondo).
In Europa la Germania era stata il maggior beneficiario dei prestiti americani, e grazie a questi aveva potuto riprendersi rapidamente dal collasso del marco nel dopoguerra. Per fronteggiare le sue esigenze di sviluppo, la Germania aveva utilizzato molti dei prestiti americani a breve termine per investimenti a medio e a lungo termine, confidando che, dato il ritmo e l’intensità dello sviluppo dell’economia statunitense, questi prestiti non sarebbero stati rapidamente ritirati. E in quale migliore mercato investire se non proprio New York? Sempre più capitali a breve termine, l’hot money («moneta calda»), furono attratti pertanto dal boom della borsa di New York.
Ma l’aumento delle quotazioni alla borsa di New York non era collegato all’aumento dei dividendi delle azioni, cioè dei profitti delle corrispondenti società, bensì a un puro gioco di speculazioni. Dal momento che i prezzi crescevano appariva vantaggioso comprare per rivendere, senza preoccuparsi della bontà dei titoli. Per il possesso di questi titoli l’investitore piccolo come quello grosso ricorreva alle banche per ottenere i finanziamenti necessari al completamento dell’operazione. Fu così che tra il 1925 e il 1929 il numero dei valori scambiati raddoppiò (incurante dell’aumento del tasso di sconto del governo statunitense del 1924).
Nell’autunno del 1929 gli Stati Uniti, che tenevano in piedi e unito il sistema economico internazionale, cominciarono a richiamare drasticamente i capitali sottraendoli, quindi, alle attività in cui erano investiti. E la crisi si allargò a macchia d’olio.
4. Caratteri della crisi
La conseguenza diretta del crollo della borsa fu la caduta dei prezzi agricoli, delle materie prime e, poi (ma in misura minore), dei prodotti industriali e la rapida contrazione del commercio in tutto il mondo, il che non poteva non riflettersi negativamente sul potere d’acquisto degli strati produttivi di tutti i paesi. Il quadro degli effetti della crisi è desolante, seppur costellato di luci e ombre:
– i salari si ridussero ovunque, anche se la caduta dei prezzi delle derrate alimentari servì a contenere i danni per il livello dei consumi; tuttavia la riduzione dei salari non contribuì ad accrescere la produzione attraverso nuovi investimenti, ma si tradusse solo in riduzione di prezzi (cfr. Michal Kalecki);
– i profitti industriali si contennero, ma non vennero eliminati completamente, grazie al processo di rapida concentrazione industriale che si era sviluppato dal dopoguerra (cfr. Hermann Levy);
– altro fenomeno di rilievo nei paesi industriali colpiti dalla crisi, come la Gran Bretagna, dove il movimento sindacale era più solidamente organizzato, fu che i salari subirono minori riduzioni per la diminuzione del numero dei salariati occupati (fatto che già veniva evidenziandosi nel periodo precedente).
La crisi fu aggravata anche dalla politica economica seguita dagli Stati Uniti. Con le loro esportazioni di capitali, avevano contribuito a mantenere in equilibrio la bilancia internazionale dei pagamenti. Scoppiata la crisi, essi non accrebbero questa esportazione di capitali, anzi iniziarono il ritiro dall’estero dei capitali a breve termine. Il ritiro di questa «moneta calda», che già era cominciato nel 1928, si intensificò nel 1930 e nel 1931 e toccò gradualmente livelli mai registrati in passato.
Questa tendenza al ritiro dal mercato internazionale, specie europeo, fu rafforzata dalla politica doganale che gli Stati Uniti perseguirono. La tariffa doganale (la famosa Hawley-Smoot) che essi adottarono a partire dal giugno 1930, fu duramente protezionistica, e, quel che è più grave, costituì un pericoloso precedente.
Certo, a spingere molti paesi a scegliere la via dell’isolazionismo, o del nazionalismo economico, fu la stessa asprezza della crisi. Nei mesi che seguirono l’ottobre 1929, la produzione industriale andò rapidamente crollando in tutti i Paesi.
Fanno eccezione:
– l’URSS, che si era esclusa dall’economia mondiale (e che peraltro non poté evitare di subire, proprio a partire dal 1929, a causa della lotta ai contadini ricchi, kulaki, gravi e irreparabili danni in agricoltura);
– il Giappone, che affrontò la crisi (inclusa la guerra) con misure inflazionistiche;
– i paesi scandinavi, esportatori di particolari materie prime per le quali la domanda non subì riduzioni sensibili.
Oltre che borsistica, industriale, agricola e commerciale, la crisi fu presto anche bancaria. Il fatto che le industrie non producessero, e che quel che producevano dovesse essere venduto a prezzi bassi, con minori profitti, e che gli agricoltori, per la caduta dei prezzi agricoli, fossero costretti o ad abbandonare la terra, o ad accontentarsi di un guadagno minimo, ebbe notevoli conseguenze sul sistema bancario. Sia l’industria che l’agricoltura erano seriamente indebitate con le banche. Nel periodo di boom, che aveva preceduto lo scoppio della crisi, queste banche avevano ecceduto nei prestiti, confidando non solo in una restituzione regolare, ma anche nel fatto che i risparmiatori non avrebbero ritirato i loro depositi, ed anzi li avrebbero accresciuti.
La crisi mise in difficoltà molte banche. Compromesso dalla caduta delle vendite e dei prezzi, un numero crescente di imprese non fu in condizione di pagare i debiti alle scadenze, e intanto le banche erano premute dai loro depositanti che, spinti a loro volta da crescenti esigenze di liquidità, volevano la restituzione di tutto o parte delle somme depositate. Schiacciate tra l’incudine del mancato rientro dei prestiti e il martello dei depositanti che pretendevano la restituzione dei loro capitali, molte di queste banche furono costrette a chiudere i battenti trascinando nel fallimento altre banche collegate (e risparmiamo i numeri). Un esempio per tutti: nel dicembre 1930 fallì la Bank of the United States in New York city, che contava oltre 400.000 depositanti, ne fu danneggiato un terzo della popolazione di New York.
5. Primi rimedi e loro conseguenze
Di fronte al disastro la reazione dell’opinione pubblica statunitense fu varia (fatalismo, condanna del consumismo, affermazione della moralità calvinista contro il lassismo), mentre il mondo economico reagì sollecitando misure deflazionistiche atte a tutelare la moneta (quali la riduzione dei consumi privati e tagli severi alla spesa pubblica, anche a quella assistenziale). La reazione del presidente repubblicano, Herbert Hoover, non fu incisiva.
Da un lato:
– si oppose inizialmente a rigorose misure deflazionistiche;
– stimolando la spesa per opere pubbliche;
– facendo pressione sugli industriali perché non riducessero i salari;
– creò nel 1930 una Grain Stabilization Corporation e una Cotton Stabilization Corporation per sostenere i prezzi sia dei cereali che del cotone, in rapida caduta.
Dall’altro, però:
– si rifiutò di porre mano a un piano di pubblica assistenza (solo 5 dollari alla settimana per famiglia);
– preferendo fare affidamento sulla carità privata e sull’azione dei governi locali.
Molte famiglie, senza più assistenza finanziaria, impossibilitate a pagare i mutui fondiari, si videro addirittura espropriate della loro casa, mentre altre si trasferivano in località dove speravano di trovare lavoro. Emblematico al riguardo è il lungo viaggio che Joad e la sua famiglia compiono nel romanzo di Steinbeck, Furore, dall’Oklahoma alla California.
Sul piano internazionale, la crisi si manifestò con la contrazione del commercio (importazioni-esportazioni: da 68.606 milioni di dollari-oro nel 1929 a 24.175 nel 1933) che comportò, come prima conseguenza, l’adozione di dazi doganali nei confronti dei prodotti esteri, soprattutto dei cereali con la conseguente caduta delle esportazioni cerealicole per i paesi più poveri (soprattutto dell’Europa dell’est). Negli Stati Uniti la citata tariffa Haweley-Smoot aumentò i dazi mediamente del 60%, ma spesso dell’80 e anche del 100%; in Inghilterra – campione per antonomasia del free trade – l’Import Duties Act, estesa a tutto l’impero nella Conferenza di Ottawa del 21 luglio 1932, comportò dazi anche superiori al 33%.
In un tale contesto la Società delle Nazioni non seppe fare altro che convocare una riunione paneuropea nel febbraio del 1930 per una sorta di tregua doganale mai attuata.
Resasi sempre più evidente l’impossibilità di un accordo internazionale in materia commerciale, cominciarono a manifestarsi tentativi di accordi limitati a due o più Stati. Così si ebbe nel 1930 una convenzione ad Oslo tra Norvegia, Svezia, Finlandia, Danimarca, Olanda e Belgio, per una più intensa cooperazione regionale. Nel marzo 1931 fu poi avanzata una proposta di unione doganale tra Austria e Germania (!) cui si oppose la Conferenza di Stresa.
Non solo queste soluzioni non sortirono alcun effetto, ma addirittura travalicarono l’ambito commerciale come nel caso dell’accordo austro-tedesco: la Francia infatti ritirò immediatamente, in forma sanzionatoria, quei prestiti a breve che aveva concesso alle banche tedesche contribuendo così a rendere insostenibile la situazione economica della Reichsbank che reagì nell’unico modo a lei concesso, rialzando il tasso di sconto e determinando quindi un’ulteriore restrizione del credito e l’ennesimo colpo all’attività economica.
Per avere un’idea della portata della crisi si veda la tabella seguente in cui, posta uguale a 100 la produzione industriale dell’ottobre 1929, si riporta la situazione nei vari paesi relative al 1932:
U.R.S.S. 183 Olanda 84 Francia 72 Polonia 63
Giappone 98 Regno Unito 84 Belgio 69 Canada 58
Norvegia 93 Romania 82 Italia 67 Stati Uniti 53
Svezia 89 Ungheria 82 Cecoslovacchia 64 Germania 53
La crisi commerciale non poteva quindi non ripercuotersi in crisi finanziaria prima e monetaria poi. Il fallimento delle maggiori banche europee (la Credit Anstalt di Vienna, la Dresdner Bank e la Darmstadter und National Bank) non poteva non ripercuotersi sul mercato di Londra che si vide richiamare tutti quei prestiti a breve di cui era campione senza però essere in grado di liquidarli in quanto quegli stessi capitali erano stati investiti a medio e lungo termine. La richiesta di una moratoria nel settembre del 1931 da parte della Banca d’Inghilterra e del Governo laburista comportò, da un lato, la sospensione dei pagamenti (con conseguente ulteriore crollo dei creditori) e dall’altro una considerevole svalutazione della sterlina (30,68% rispetto al dollaro e abbandono del Gold Standard) e la fine di un’epoca.
Il terremoto finanziario, attraverso il medio dell’impero commerciale inglese, coinvolse tutte le monete mondiali.
6. La disoccupazione
Non si dà crisi (borsistica o finanziaria, bancaria o monetaria, commerciale o industriale) che non scarichi a massa i suoi effetti. Secondo i dati della Società delle Nazioni, la disoccupazione superò nel 1932 i 25 milioni di unità cui bisognava aggiungere i milioni di lavoratori agricoli e di contadini che, se non disoccupati, erano occupati quasi ovunque solo parzialmente. Maggiore fu quindi la disoccupazione in quelle nazioni dove la possibilità di lavoro-sfogo agricolo erano minori: 15 milioni negli Stati Uniti e 7 milioni in Germania – nazioni a forte tasso di industrializzazione. La Francia risentì in maniera nettamente inferiore del fenomeno disoccupazione per vari motivi contingenti (dopo la guerra fu meta di molti emigranti in cerca di lavoro che alle prime avvisaglie della crisi rimpatriarono; anche molti francesi abbandonarono le città rifugiandosi nelle fattorie agricole; ma la crisi in generale si manifestò in ritardo rispetto agli altri paesi – tanto che, come abbiamo visto, si era permessa ancora prestiti a breve nei confronti delle banche tedesche).
La disoccupazione fu aggravata dalle politiche deflazionistiche adottate per evitare conseguenze sul bilancio statale: riduzione degli stipendi, aumento della tassazione diretta anche sui salari, e drastica riduzione della spesa pubblica (si veda, per esempio, l’operato del governo Brüning in Germania). E dalla crisi sociale che ne seguì alla crisi politica il salto fu breve: è, infatti, al malcontento che essa suscitò che va attribuito il primo successo ottenuto da Hitler nelle elezioni del luglio 1932. Successo che si rinnovò e accrebbe nelle nuove elezioni del novembre, anche se, nel frattempo, a partire dagli inizi del settembre, il cosiddetto «piano di Von Papen» aveva cercato di imprimere numerosi stimoli alla domanda interna, e, con la riduzione del tasso di sconto al 4% e alcune agevolazioni creditizie, aveva favorito la ripresa industriale.
Ma ovunque la politica di contenimento della spessa pubblica e di salvaguardia del valore della moneta (promossa da Hoover) è da considerarsi una delle principali cause della ingente disoccupazione mondiale. Fu in questo quadro che le elezioni presidenziali negli Stati Uniti del novembre portarono alla sconfitta di Hoover e alla vittoria di F. D. Roosevelt.
7. Il 1933: il New Deal, la ripresa e… Hitler
Il 1933 segnò una svolta importante nella crisi. Sintomi di ripresa si verificarono un po’ dovunque. La produzione industriale registrò valori più alti di quelli dell’anno precedente, e l’occupazione accennò in generale ad aumentare. Tuttavia, il 1933 fu caratterizzato soprattutto da altri fatti importanti.
Il primo è il definitivo fallimento di ogni tentativo di collaborazione internazionale. La Conferenza economica e monetaria mondiale, apertasi a Londra nel giugno 1933 dopo una lunga preparazione, sanzionò l’effettiva frantumazione del mercato mondiale. Scontratasi sul problema se bisognasse stabilizzare le varie monete e attuare nuovamente il «ritorno all’oro», come base del sistema monetario e delle transazioni internazionali, la Conferenza si chiuse con la deliberata svalutazione del dollaro (10%) fermamente perseguita da Roosevelt, da pochi mesi al potere, e l’ostinata difesa dell’oro da parte della Francia. Dalla Conferenza uscirono tre blocchi principali con differenti politiche economiche:
1) dell’area del dollaro (Roosevelt voleva usare la svalutazione per operare una diminuzione dei debiti interni e per accrescere il potere d’acquisto dei ceti agricoli, in modo che essi potessero intensificare gli acquisti di prodotti industriali, e quindi contribuire attivamente alla ripresa);
2) dell’area della sterlina (la Gran Bretagna affermava esplicitamente che la politica monetarla non doveva essere rivolta al mantenimento della stabilità dei cambi esteri, ma solo ad assicurare credito abbondante e a buon mercato);
3) del blocco aureo: Francia, Belgio, Italia, Svizzera, Paesi Bassi e Polonia (questi Paesi miravano a garantire la stabilità e solidità della moneta, perseguita attraverso l’equilibrio nel bilancio statale e nella bilancia dei pagamenti, anche a costo di attuare politiche deflazionistiche);
La «caduta» del dollaro costituisce, senza dubbio, il secondo dei fatti più importanti del 1933. Salito al potere, agli inizi dell’anno, Roosevelt si trovò a fronteggiare un grave peggioramento delle condizioni del sistema bancario statunitense. I fallimenti si moltiplicavano. Furono più del doppio di quelli dell’anno precedente. Di fronte all’ampiezza del fenomeno, Roosevelt si adoperò per l’approvazione dell’Emergency Banking Act e poi del Banking Act (20 marzo 1933), cambiando radicalmente la politica economica del suo predecessore. Grazie alla notevole svalutazione del dollaro cui fu autorizzato dal Congresso, stimolò la spesa pubblica, intraprendendo un vasto programma di opere pubbliche, e ponendo mano a quello che fu chiamato il New Deal, un complesso di misure volte, in particolar modo:
1) a sostenere gli agricoltori attraverso il controllo della produzione attuato anche attraverso la riduzione della superficie coltivata, e la concessione di sussidi,
2) a contenere e ad eliminare la speculazione,
3) a ridurre lo strapotere dei grandi gruppi finanziari.
Altro fatto del 1933, non meno importante, soprattutto per le conseguenze che avrebbe prodotto, fu l’ascesa di Hitler al potere in Germania. La crisi economica gli era stata, come si è accennato, decisamente favorevole. Le quattro elezioni che si svolsero tra il settembre 1930 e il marzo 1933 videro il numero dei suoi deputati crescere da 107 a 288, ossia dal 18% a circa il 54% dell’intero numero di seggi del Reichstag.
Si è detto anche che il 1933 segnò l’inizio della ripresa. Il fenomeno non fu contemporaneo in tutti i paesi. Per l’Italia, ad esempio, bisognò attendere il 1934; per il Belgio, il 1935; ecc. Negli anni seguenti, la produzione continuò a crescere, e con essa l’occupazione e gli investimenti. Questa fase di ripresa culminò nel 1937, facendo ritenere che si fosse di nuovo di fronte a un boom. Tuttavia, già sul finire di quell’anno, si poterono rilevare qua e là segni indubbi di recessione. E se questa recessione non si estese e non si aggravò, trasformandosi in una nuova drammatica crisi, questo avvenne perché il mondo aveva imboccato chiaramente la strada del riarmo e della guerra. Nell’estate del 1938, dopo l’annessione dell’Austria alla Germania, l’incontro di Monaco confermò l’ineluttabilità di quella svolta. L’anno successivo, sul finire dell’estate, scoppiava la seconda guerra mondiale.
L’intervento statale e la fine del liberismo. L’interventismo statale assunse in primo luogo la caratteristica di un aumento della spesa pubblica. La riduzione della spesa pubblica era stata uno dei punti fermi delle politiche deflazionistiche adottate nella prima fase della crisi. Ora, nell’ultima fase, in molti paesi si ritornò a privilegiare la spesa pubblica ma, ancora una volta, con notevoli differenza tra paese e paese.
Negli Stati Uniti ad esempio, più che di un aumento della spesa per investimenti, si trattò di un aumento della spesa corrente. A differenza del periodo pre-crisi, nell’ultima fase della crisi si registrò cioè una modificazione nella struttura della spesa pubblica. La spesa per investimenti fu, in termini di reddito nazionale, assai inferiore a quella che era stata negli anni 1923-1929. Ancora più importante: la spesa corrente per consumi precedette la spesa per investimenti. Sarebbe stato, in sostanza, l’accento posto sul consumo a generare, attraverso l’aumento della domanda, la ripresa industriale.
In Germania si verificò, al contrario, il caso opposto. Furono le spese per investimenti che prevalsero. Il Governo nazista privilegiò lavori pubblici ed armamenti e furono questi investimenti pubblici a sollecitare quelli privati, sui quali, per altro, lo Stato non mancò di esercitare rigorosi controlli. Tuttavia, il Governo di Hitler non tralasciò di concedere all’industria privata sussidi statali ed esenzioni tributarie per talune forme d’investimenti.
Altra forma assunta dall’interventismo statale fu la politica del danaro a buon mercato. Questo fu il caso soprattutto della Gran Bretagna e dell’Italia: nell’intento di ridurre l’onere degli interessi gravanti sul bilancio statale si perseguirono politiche di conversione del debito pubblico (consistenti nel porre i possessori di titoli del debito pubblico nella condizione o di accettare una diminuzione del tasso di interesse o di rassegnarsi alla restituzione del capitale prestato allo Stato).
Forma efficace di interventismo fu anche l’assistenza a favore di industrie particolarmente depresse, sia con finanziamenti agevolati sia con interventi rivolti a migliorarne l’organizzazione interna. Dovunque furono incoraggiate le industrie di esportazione, ma in taluni paesi (si veda il caso dell’Italia) l’intervento dello Stato raggiunse forme anche più dirette. In Italia, dopo la costituzione, nel 1931, dell’I.M.I. vi fu, nel gennaio 1933, quella dell’I.R.I. Con l’I.M.I. e soprattutto con l’I.R.I. si mirò, ad un tempo, da un lato allo smobilizzo finanziario e dall’altro alla riorganizzazione gestionale e produttiva del sistema industriale.
Inoltre si realizzarono in molti paesi politiche di controllo valutario, concretatesi in accordi commerciali bilaterali e in forme di clearings (forme di regolamento dei rapporti di scambio tra paesi fondate sulla compensazione delle reciproche posizioni creditorie e debitorie).
Queste politiche d’intervento non furono contemporanee in tutti i Paesi, e non dettero risultati positivi ovunque nello stesso periodo. Ritardi ed errori tecnici e politici si verificarono un po’ dappertutto. I paesi del blocco aureo, ad esempio, adottarono politiche inflazionistiche con ritardo rispetto alla Gran Bretagna e agli Stati Uniti. Il Belgio vi aderì solo dopo una serie di rovesci bancari, conseguenti alla difficile situazione industriale. La Francia vi giunse solo nel 1936, quando, sull’onda del malcontento popolare per la crescente disoccupazione, salì al potere Léon Blum alla guida del così detto Fronte popolare. Ma i risultati che l’esperimento sortì, per le eccessive misure demagogiche adottate, furono assai inferiori all’attesa. La Francia non aveva le possibilità di recupero degli Stati Uniti, perché le sue risorse economiche erano minori. E questa realtà pesò sul destino del Fronte popolare, condannandolo al fallimento, e identificandolo con la finanza allegra e infeconda. L’Italia fece ricorso alle misure inflazionistiche solo nel corso del 1935-36, dopo i salassi valutari subiti durante la guerra d’Etiopia.
Ancora: in alcuni paesi, la ripresa industriale fu ottenuta a costo di gravi sacrifici per le popolazioni, con danno del progresso tecnologico industriale, grazie all’adozione di sistemi autarchici. Il che accrebbe l’isolamento di tali paesi e il frazionamento del mondo economico, fenomeno che non fu senza responsabilità nel processo che portò al secondo conflitto mondiale.
Complesse e varie furono, comunque, le strategie seguite dai vari paesi per superare la depressione, e, riducendo o eliminando la disoccupazione, assicurare speranze e benessere agli uomini. Le politiche adottate non furono, però, esenti da critiche e da riflessi negativi. Se il risultato fu la ripresa e la notevole contrazione della disoccupazione, deve anche dirsi che esse non rappresentarono la formula ansiosamente ricercata per assicurare occupazione e benessere permanente. Nel pieno della ripresa, si guardò ancora una volta alla guerra come allo strumento migliore e più efficace per il progresso civile dei popoli. E la guerra, purtroppo, venne!
8. L’interpretazione keynesiana
Che cosa aveva ridotto così drasticamente la produzione di beni e di servizi? Le risorse naturali degli USA erano ancora abbondanti. Il paese possedeva un eguale numero di fabbriche, di attrezzature e di macchine. Il popolo possedeva le stesse capacità lavorative e voleva dispiegarle nel lavoro. E tuttavia milioni di lavoratori, con le loro famiglie, mendicavano, prendevano a prestito, rubavano, facevano la fila per ottenere magre porzioni della carità pubblica, mentre migliaia di fabbriche rimanevano inattive o lavoravano ben al di sotto della propria capacità.
La spiegazione sta nelle istituzioni del sistema capitalistico dell’economia di mercato. Le fabbriche avrebbero potuto essere aperte e gli uomini mantenuti al lavoro, ma non lo furono perché questo non avrebbe prodotto profitto. E, in un’economia capitalistica, le decisioni di produzione sono basate principalmente sul criterio del profitto e non sulle necessità della gente.
Il sistema economico capitalista parve essere sull’orlo di un completo collasso. Erano indispensabili provvedimenti drastici, ma prima di poter salvare il sistema era necessario comprendere meglio la malattia di questa depressione economica.
E questo compito fu assolto da uno fra i più brillanti economisti del secolo: John Maynard Keynes (1883-1946). Nel suo libro La teoria generale dell’occupazione, interesse e moneta, Keynes cercò di far capire che cosa era successo al capitalismo, al fine di permetterne la conservazione.
La depressione nasce dal fatto che una riduzione nel volume degli investimenti che possono accadere ciclicamente o accidentalmente in un’economia, quale ne sia il motivo, si riflette in una riduzione della produzione dei beni strumentali nei quali detti investimenti si concretizzano. Da qui una riduzione nell’occupazione e nei consumi dei gruppi di percettori di reddito interessati in tale produzione. In conseguenza, peggiorano le prospettive di guadagno di altri gruppi di imprenditori e con esse diminuisce ulteriormente l’incentivo ad investire.
Cadono così ulteriormente i consumi, attraverso una serie di reazione a catena per effetto delle quali la situazione, in fatto di occupazione, produzione, prezzi e profitti, tende a peggiorare per così dire da se stessa. In particolare, gli imprenditori non hanno convenienza ad utilizzare in nuovi investimenti il risparmio monetario accumulato dai percettori di reddito.
Il nodo della crisi risiede proprio in questa discordanza tra le decisioni dei percettori di reddito, che ritengono conveniente non consumare, ma che non investono direttamente il danaro risparmiato, e le decisioni degli imprenditori, che non ritengono conveniente utilizzare tale denaro per aumentare i loro investimenti e, quindi, la domanda di beni strumentali.
Si pensa quindi che lo Stato debba cercare di arrestare il processo, per così dire, di perdita di velocità, da cui è investito il sistema economico per effetto del circolo vizioso: riduzione di investimenti – riduzione di consumi – di nuovo riduzione degli investimenti e via di seguito.
Ciò può ottenersi essenzialmente attraverso una qualificata spesa pubblica addizionale, che, se effettuata tempestivamente e in misura adeguata, può invertire la tendenza e ricondurre il sistema verso posizioni di pieno impiego, pur mantenendo una situazione di prezzi stabili. Dopo di che l’intervento statale ha termine, salvo prodursi con altre modalità nella situazione opposta in cui un processo di espansione dia luogo a una domanda di fattori produttivi che ecceda quella che può essere soddisfatta ai prezzi correnti.
In conclusione il Keynes sostiene che l’intervento dello Stato deve essere limitato nel tempo e basato su un programma di spesa pubblica mirante ad utilizzare i fattori inoperosi (politica anti-deflazionistica) oppure deve essere finalizzato a contenere la domanda nei limiti dei fattori disponibili (politica anti-inflazionistica).
(Cfr. mappa concettuale: La crisi del 1929 )

Luigi De Rosa, La crisi economica del 1929, Le Monnier, Firenze 1979.

giobbe8871
Scritto il 3 Settembre 2014 at 16:06

Così quando l’Inghilterra nel ’25 tornò alla parità con USD , entrò in crisi; allo stesso modo, quando nel ’27 la lira si allineò alla sterlina ebbe inizio la crisi anche in Italia (cfr. A. Musco).

Eppure fu dopo questa generale sistemazione delle monete europee svoltasi tra il 1925 e il 1927 che gli Stati Uniti intensificarono i loro prestiti ai vari Paesi europei.
Nei soli anni 1925-1929, gli Stati Uniti prestarono all’estero circa tre miliardi di dollari. E a poco a poco una gran parte dell’oro del mondo si andò a concentrare a Fort Knox (che nel 1929 ha già il 38% dell’oro del mondo).

si andò a concentrare a Fort Knox (che nel 1929 ha già il 38% dell’oro del mondo).

si andò a concentrare a Fort Knox (che nel 1929 ha già il 38% dell’oro del mondo).

In Europa la Germania era stata il maggior beneficiario dei prestiti americani, e grazie a questi aveva potuto riprendersi rapidamente dal collasso del marco nel dopoguerra. Per fronteggiare le sue esigenze di sviluppo, la Germania aveva utilizzato molti dei prestiti americani a breve termine per investimenti a medio e a lungo termine, confidando che, dato il ritmo e l’intensità dello sviluppo dell’economia statunitense, questi prestiti non sarebbero stati rapidamente ritirati.

NOW ORA , THE GOLD DOVE è ? AHHH

d
Scritto il 3 Settembre 2014 at 22:07

giobbe8871@finanza,

è andato ai Cinesi…

signor pomata
Scritto il 3 Settembre 2014 at 23:20

Mi son portato sfiga da solo.
Mai una previsione si avverò tanto velocemente……
A questo punto non monetizzo…….la strada la conosco ….aspetto che la prendano gli altri cosi corro senza sforzo.

kry
Scritto il 4 Settembre 2014 at 00:00

d@finanza:
giobbe8871@finanza,

è andato ai Cinesi…

……. e indiani.

aorlansky60
Scritto il 4 Settembre 2014 at 08:16

…e ai Russi, si potrebbe aggiungere, così abbiamo completato il quadro dei “nuovi potenti” a livello globale (la Russia lo era anche prima quando era nota solo come U.S.S.R. grazie al suo formidabile potenziale militare, poi quando le vicissitudini storiche l’hanno fatta aprire ai mercati, grazie alle enormi quantità di materie prime necessarie all’industria che possiede sul proprio territorio lo è diventata anche a livello economico).

Gli Arabi (da non intendersi come Islam, ma in quegli stati del Golfo che la sorte ha reso fortunati grazie al petrolio…) erano i veri ricchi del mondo già dalla seconda metà del XXmo secolo (ed ancora mantengono quello status), poi grazie agli aggiustamenti degli assets geo-politici avvenuti negli ultimi 20 anni sono arrivati in scia anche Cinesi Indiani e Russi…

Una precisazione è d’obbligo : quando si indicano questi popoli, è chiaro che non tutti al loro interno lo sono diventati; come nel caso “degli Arabi” dove ad essere ricco è solo il reggente di turno (e famiglia) grazie al sistema politico di tipo feudale che vige da quelle parti, lo stesso accade negli altri casi citati, dove a farla da padrone sono i sistemi oligarchici venutisi a creare che hanno sfruttato opportunamente la nuova situazione venutasi a creare a proprio vantaggio .

flynow
Scritto il 4 Settembre 2014 at 09:31

Provo a togliere il dubbio amletico al giornalista de Il Fatto quotidiano quando afferma :

[…] Mi chiedo come un economista del calibro di Mario Monti abbia potuto firmare un trattato che, se applicato alla lettera, porterà l’Italia al fallimento: ridurre al 60% il debito in vent’anni significa andare incontro a una recessione che sottrarrebbe il 30-40% del Pil nello stesso periodo. Un disastro, e la fine dell’euro”. […]

Il progetto mercantilista europeo, che ha volutamente escluso, “cooperazione effettiva”, cultura, e trascendenza, dalla costituzione Europea, per ovvie ragioni di controllo tramite il potere della finanza, deve rastrella risparmio ed indebolire le persone, affinché possano “finalmente” accettare l’inaccettabile.

Ripulito il barile sperando di evitare “incavolature generali dei popoli”, poiché condotto con dovizia e cautela, anche l’Euro avrà fatto la sua funzione e con servirà più.

Il Marietto ricordiamolo che “…ha delle distorsioni positive…” a suo dire, vedrà realizzato il sogno o meglio l’effetto delle “crisi” che “servono per fare passi avanti” -a suo dire- consistono “in cessioni di sovranità”, ovvero vendere la propria anima l diavolo.

Mario Monti è un economista di calibro come io sono Papa Benedetto, non ha pubblicazioni importanti in nessuna rivista scientifica, quindi non è un economista di “calibro” ma un “delinquente comune”. Non conosco bene lo stile di questo Blog, se sono andato oltre chiedo scusa, ma quando si vuole ci vuole.

flynow
Scritto il 4 Settembre 2014 at 09:51

stanziale@finanza,

Il suo merito dipende da una certa appartenenza alla fratellanza, altamente fotogenico : http://www.servizisegreti.eu/2013/01/

flynow
Scritto il 4 Settembre 2014 at 10:01

atomictonto@finanza,

Credo che stanziale@finanza si riferisse alle pubblicazioni su riviste scientifiche, i tuoi riferimenti sono pubblicazioni che non hanno grandi riconoscimenti scientifici, mi pare, ma posso sbagliarmi.

Anche i comunisti di Mosca si facevano scrivere i libri conto terzi pagati dal partito, non so se anche lui ha utilizzato questo metodo, potrebbe anche essere non credi, oppure hai notizie differenti, mi mandi i link per cortesia, ti ringrazio, mi piacerebbe approfondire il Monti pensiero, anche se presumo di non fare grandi scoperte.

glare
Scritto il 4 Settembre 2014 at 10:52

signor pomata@finanzaonline,

Perchè vorrebbe monetizzare..se non ho capito male lei ha dei buoni..?

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